venerdì 9 settembre 2011

E' la crescita che distrugge il lavoro e i beni comuni

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di Paolo Cacciari
Fa una certa impressione leggere i patti multilaterali, gli appelli bipartisan alla coesione nazionale in nome della Crescita invocata come se fosse la Madonna miracolosa. Ma di cosa parlano sindacalisti, industriali, banchieri, politici? Scrivono i ricercatori del Wuppertal Insitute (Futuro sostenibile. Le risposte eco-sociali alle crisi in Europa, a cura di Wolgang Sachs e Marco Morosini, Ed. Ambiente, 2011): “Da tre decenni i politici cercano inutilmente di combattere la disoccupazione attraverso una crescita economica forzata. Ma se la produttività del lavoro aumenterà, come ha fatto finora, del 1,5-2% all’anno, il Pil dovrebbe aumentare del 3 o 4% all’anno o anche di più nel lungo periodo per eliminare davvero la disoccupazione. Puntare a tassi di crescita del genere è vano” (p. 289). E stiamo parlando della Germania, della “locomotiva” – irraggiungibile – dell’Europa, del “modello” – inimitabile – di economia. Dal 1970 al 2005 la produttività del lavoro è aumentata del 2,5%, il Pil è più che raddoppiato, ma le ore lavorate sono diminuite dell’86%. Insomma, nei paesi a capitalismo maturo, i posti di lavoro diventano più produttivi e diminuiscono di numero: jobless growth. Le ragioni di questa divaricazione, di questo divorzio tra crescita e benessere, sono molte: la delocalizzazione delle produzioni industriali di massa, l’allargamento dei sistemi di mercato in nuove aree geografiche e settori produttivi, la finanziarizzazione dell’economia con i tassi di rendimento esorbitanti pretesi dai possessori di titoli di credito, altro ancora. Ma è certo che inseguire questa crescita è un vero suicidio per le società occidentali. Senza contare il fatto che questa crescita economica si porta dietro un carico ambientale semplicemente insostenibile. Serve ricordare le guerre commerciali (e non solo) in corso per l’accaparramento delle materie prime, delle utilities, del suolo fertile, dei genomi, di internet… e di quanti altri beni comuni ancora rimangono da saccheggiare? Per quanta droga finanziaria (speculativa nelle Borse o di stato nel sostegno ai titoli del debito pubblico) si possa immettere, la cosiddetta “economia reale” europea, quella fatta di merci vendibili e di lavoro vivo remunerato, non riuscirà mai a tenere il passo nella guerra competitiva senza confini e senza regole che si chiama concorrenza intercapitalistica internazionale, dove 500 società di capitale controllano il 52% del Prodotto lordo mondiale, dove una microscopica casta di cosmocrati stile Marchionne ha il potere di determinare le politiche industriali degli stati nazionali. Difficile pensare che la crisi di un sistema si possa risolvere perseverandolo a tutti i costi. Un altro che se ne intende, Tim Jachson, a capo di uno staff di consulenti del governo britannico, (Prosperità senza crescita. Economie per il pianeta reale, Ed. Ambinete, 2011) ha scritto: “Sono state le politiche attuate per stimolare la crescita a portare l’economia al tracollo”. Sarebbe forse giunto il momento di mettere in dubbio l’imperativo della crescita. Le alternative esistono, ma sono quelle che non scritte nel “patto sociale”: redistribuire il lavoro attraverso una diminuzione degli orari (in Germania lo chiamano “tempo pieno breve per tutti” o “società a mezza giornata”) e l’introduzione di nuovi modelli di reddito (fissazione di limiti massimi e minimi con un reddito di base garantito per la valorizzazione del lavoro oggi non retribuito per attività di cura per la famiglia, la natura, la società); nuova fiscalità puntando su tasse ecologiche (carbon tax, pubblicità) e socialmente eque (Tobin tax); diversa gestione trasparente e pubblica della finanza (imponendo tassi di rendimento differenziati a seconda del periodo di recupero); economia solare, investimenti ecologici (conversione ecologica dell’industria secondo i modelli della Bleu Economy, a zero emissioni), revisione della contabilità nazionale (superare il Pil come indicatore del benessere sociale ed della sostenibilità ambientale). Insomma è necessario “disaccoppiare” (decoupling, come dicono gli economisti) il benessere, lo star bene, da quanto il mercato è disposto a darci, cioè dalla nostra capacità di solvibilità. Per uscire davvero dalla crisi dovremmo far recedere il mercato (cominciando da quello finanziario, dei titoli di debito) aumentando gli spazi anche economici di autonomia della società. Sottrarre beni e servizi comuni (l’acqua è solo il primo esempio, quanti altri sarebbero possibili?) dagli artigli della “messa a valore” (rendimento monetario, profittabilità) di ogni cosa e di ogni relazione sociale. Insomma servirebbe un progetto di nuovo modello economico per la sinistra. Esattamente il contrario della crescita.
Per un'altra Città lista di cittadinanza

mercoledì 17 agosto 2011

Le privatizzazioni: il referendum cancellato

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LE PRIVATIZZAZIONI Il referendum cancellato
di Ugo Mattei
(il manifesto 14.08.2011)

Non volevo credere ai miei occhi quando ho visto, già depresso per una manovra che si commenta da sé, che il ministro Fitto avrebbe messo a punto una norma che che prevede la messa a gara dei servizi pubblici locali (ad eccezione dell'acqua). La norma prevede che le gestioni in house, salvo quelle con valore economico inferiore a 900.000 euro, debbano cessare entro il 31 marzo del 2012. Un vero déjà vu.
Un vero déjà vu. Fitto era già cofirmatario del decreto Ronchi, quello che (la maggior parte dei media sembrano averlo già dimenticato), la maggioranza assoluta del popolo italiano ha abrogato due mesi fa rispondendo sì al primo quesito referendario. La struttura del nuovo provvedimento, che non porta più la firma di Ronchi soltanto perché quest'ultimo, grazie al cielo, non è più al governo, è identica a quella della legge abrogata dal popolo sovrano. Un obbligo di messa a gara a data certa, ossia proprio quella struttura che tutti in Italia hanno capito avere un impatto devastante sul valore di quanto si vuole vendere. Non più l'acqua ma cespiti importanti del patrimonio pubblico come i trasporti locali, l'organizzazione della raccolta rifiuti e tutti i restanti servizi locali di rilevanza economica che verrebbero svenduti con un impatto drammatico sul valore del nostro patrimonio pubblico. Con l'eccezione dell'acqua, il contenuto del nuovo provvedimento è a sua volta identico a quello del Ronchi che, come ben noto, non riguardava soltanto l'acqua ma (stava scritto sull'intestazione della scheda n. 1 cui hanno risposto sì circa 27 milioni di elettori) le «Modalità di affidamento e gestione servizi pubblici locali a rilevanza economica. Abrogazione».
Insomma sta succedendo esattamente quanto temevo. L'esito referendario è stato svuotato (complici le opposizioni) del suo valore costituente e ridotto ad una mera questione tecnica legata alla sola gestione dell'acqua. La vera inversione di rotta relativa alle privatizzazioni (e liberalizzazioni camuffate) richiesta dal popolo non è stata interpretata politicamente da nessuno (ad eccezione del solo De Magistris a Napoli) L'esito di questo imperdonabile vuoto nell'interpretare il cambiamento di sensibilità politica nazionale è che impunemente il governo Berlusconi (al posto di andarsene a seguito del voto sul legittimo impedimento) impone (pare sotto dettatura dei poteri forti europei) una manovra che, con scelta politica deliberata, fa strame del patrimonio pubblico e dei beni comuni, sacrificandoli sull'altare della crescita. Ma il popolo aveva detto che i trasporti pubblici ed i rifiuti, non meno dell'acqua, devono essere governati in modo ecologico, sociale e sostenibile, nell'interesse comune e non in quello dei soliti poteri finanziari.
Il governo si fa beffe, in modo palesemente incostituzionale, della volontà sovrana chiara, espressa solo due mesi fa rispetto al primo (e più votato) quesito referendario che era contro il decreto Ronchi-Fitto. Che il referendum non fosse limitato all'acqua lo aveva abbondantemente detto anche il fronte del no in campagna elettorale!. Personalmente ho contribuito a redigerne il quesito e ho partecipato alla sua difesa di fronte alla Corte Costituzionale il 12 gennaio. La Corte era stata chiarissima nel ribadire che ogni quesito costituiva un referendum separato rispetto agli altri. La Corte aveva inoltre acclarato che Il primo quesito aveva come intento politico quello di riequilibrare il rapporto fra pubblico e privato nella gestione dei servizi pubblici locali che, ad avviso dei promotori, il decreto Ronchi-Fitto aveva stravolto tramite l'obbligo di messa a gara.
Quanto sta succedendo è di una gravità politica giuridica e costituzionale inaudita. A soli due mesi da un voto popolare espresso si ripropone il provvedimento abrogato negli identici termini di forma e di sostanza. Sul piano giuridico, se il governo avesse deciso ieri di privatizzare l'acqua non ci sarebbe stata alcuna differenza. L'Europa non può imporre ad un paese membro provvedimenti incostituzionali. Questo si sarebbe dovuto rispondere a Trichet e Draghi.
Il Presidente Napolitano ha adesso un dovere costituzionale di intervenire su questo punto. Il fronte di difesa dei beni comuni non può fare lo sconto a nessuno.



mercoledì 1 dicembre 2010

LA FINANZIARIA DI "SBILANCIAMOCI!" DEL 2011 E' DI 25 MILIARDI E 596 MILIONI

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E’ stato presentato l’11° Rapporto della campagna Sbilanciamoci! che – come ogni anno – illustra il punto di vista e le controproposte della società civile in occasione della discussione del Bilancio dello Stato e della Legge di Stabilità.
http://www.altracitta.org/wp-content/uploads/2010/11/rapporto2011_def-1.pdf
La manovra di Sbilanciamoci! prevede entrate dalla tassa patrimoniale (10 miliardi e 500 milioni), dalla riduzione delle spese militari (oltre 5 miliardi), dalla cancellazione dei finanziamenti al Ponte sullo stretto e alle grandi opere (più di 1 miliardo e 500 milioni) e da un’altra serie di interventi (abolizione dei sussidi alle scuole private, introduzione dell’open source nella Pubblica Amministrazione, ecc.). Nel contempo la proposta di Sbilanciamoci! è di investire le risorse recuperate nella difesa del potere d’acquisto dei redditi, nelle politiche sociali, nella scuola e nell’università, nelle “piccole opere” (mobilità sostenibile, riassetto idrogeologico, messa in sicurezza nelle scuole) di cui il paese ha drammaticamente bisogno. Inoltre servono investimenti nelle energie rinnovabili e nelle produzioni e consumi della “green economy”.
Sbilanciamoci! ha anche analizzato la situazione dell’Italia alla luce dell’Open Budget Index – indagine sulla trasparenza e sulla facilità di accesso ai documenti pubblici dove il nostro paese risulta essere al 58° posto nella classifica, fanalino di coda tra tutti i paesi europei.

L'Altracittà giornale della periferia

 

San Casciano Val di Pesa • Gruppo consiliare Laboratorio per un’Altra San Casciano - Rifondazione Comunisti Italiani