venerdì 21 ottobre 2011

Campagna per il congelamento del debito

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Continuano a farci credere che per uscire dal debito dobbiamo accettare manovre lacrime e sangue che ci impoveriscono e demoliscono i nostri diritti. Non è vero. La politica delle manovre sulle spalle dei deboli è voluta dalle autorità monetarie europee come risultato della speculazione. Ma è intollerabile che lo Stato si adegui ai ricatti del mercato: la sovranità appartiene al popolo, non al mercato!
Esiste un'altra via d'uscita dal debito. E' la via del congelamento e se la condividi ti invitiamo a firmare e a diffondere questo documento, affinché si crei una grande onda che dica basta alle continue manovre che distruggono il tessuto sociale. Il problema del debito va risolto alla radice riducendone la portata. Non è vero che tutto il debito va ripagato, il popolo ha l'obbligo di restituire solo quella parte che è stato utilizzata per il bene comune e solo se sono stati pagati tassi di interesse accettabili. Tutto il resto, dovuto a ruberie, sprechi, corruzione, è illegittimo e immorale, come hanno sempre sostenuto i popoli del Sud del mondo.
Per questo chiediamo un'immediata sospensione del pagamento di interessi e capitale, con contemporanea creazione di un'autorevole commissione d'inchiesta che faccia luce sulla formazione del debito e sulla legittimità di tutte le sue componenti. Le operazioni che dovessero risultare illegittime, per modalità di decisione o per pagamento di tassi di interesse iniqui, saranno denunciate e ripudiate come già è avvenuto in altri paesi.
La sospensione sarà relativa alla parte di debito posseduto dai grandi investitori istituzionali (banche, assicurazioni e fondi di investimento sia italiani che stranieri) che detengono oltre l’80% del suo valore. I piccoli risparmiatori vanno esclusi per non compromettere la loro sicurezza di vita.
Contemporaneamente va aperto un serio e ampio dibattito pubblico sulle strade da intraprendere per garantire la stabilità finanziaria del paese secondo criteri di equità e giustizia.
Almeno cinque proposte ci sembrano irrinunciabili:

*riforma fiscale basata su criteri di tassazione marcatamente progressiva;
*cancellazione dei privilegi fiscali e seria lotta a ogni forma di evasione fiscale;
*eliminazione degli sprechi e dei privilegi di tutte le caste: politici, alti funzionari, dirigenti di società;
*riduzione delle spese militari alle sole esigenze di difesa del paese e ritiro da tutte le missioni neocoloniali;
*abbandono delle grandi opere faraoniche orientando gli investimenti al risanamento dei territori, al    potenziamento delle infrastrutture e dell'economia locali, al miglioramento dei servizi sociali col coinvolgimento delle comunità.

Attorno a queste poche, ma concrete rivendicazioni, è importante avviare un dibattito quanto più ampio possibile, partecipando al forum appositamente costituito all'indirizzo www.cnms.it/forum
Se poi l'onda crescerà, come speriamo, decideremo tutti insieme come procedere per rafforzarci e ottenere che questa proposta si trasformi in realtà.

Francuccio Gesualdi , Aldo Zanchetta, Alex Zanotelli, Bruno Amoroso, Antonio Moscato, Alberto Zoratti, Claudia Navoni, Rodrigo A.Rivas, Giorgio Riolo, Roberto Bugliani, Luigi Piccioni, Michele Boato, Carlo Contestabile Ciaccio, Roberto Fondi, Roberto Mancini, Gianni Novelli, Achille Rossi, Paolo Cacciari, Maurizio Fratta, Fabio Lucchesi, Lorenzo Guadagnucci, Nadia Ranieri, Paola Mazzone, Enrico Peyretti, Gaia Capogna, Francesco Amendola, Uberto Sapienza, Manuela Moschi, Mauro Casini, Roberto Viani, Michela Caniparoli, Franco Fantozzi, Franco Nolli

L'ambiente o il salario, i rischi di un ricatto

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L'ambiente o il salario, i rischi di un ricatto
di Paolo Baldeschi, Corriere Fiorentino, giovedì 20 ottobre 2011


Al punto in cui siamo giunti, in piena crisi economica, con la gente che perde il lavoro e deve pagare il mutuo per la casa, è quasi impossibile che si trovi una soluzione alla vicenda Laika che salvi salario e ambiente. Quando si ha la pictola alla tempia si deve mollare la borsa e se fossi nelle condizioni degli operai della Laika anch'io mi batterei per la costruzione del capannone senza ulteriori indugi.

Ma, tuttavia, sarei ben consapevole di essere sotto ricatto. E ciò, a maggior ragione deve valere per sindacalisti e politici che si sono schierati senza fare alcuno sforzo per comprendere le ragioni di chi si è opposto al progetto, quando ancora si poteva trovare una soluzione soddisfacente per tutti.

Proviamo ad immaginare cosa succederebbe se tutte le imprese industriali che si vogliono rilocalizzare in Toscana o aprire una fabbrica nella nostra regione agissero come la Hymer AG, la multinazionale tedesca che ha rilevato nel 2001 l'azienda: rifiutando di insediarsi nelle zone industriali esistenti, ma pretendendo di scegliere un'area agricola e ottenendo una variante ad hoc degli strumenti urbanistici.

Il nostro territorio sarebe disseminato di capannoni localizzati a casaccio, fuori dalle aree industriali (peraltro piene di stabilimenti dismessi e di lotti inutilizzati); con buona pace del paesaggio e ambiente che non solo sono beni di cui godono tutti, anche gli operai della Laika, ma fattori fondamentali dell'attrattività del territorio rispetto al capitale umano qualificato: i "talenti" necessari per lo sviluppo di produzioni innovative e ad alta intensità di conoscenza, l'unica chance per una modernizzazione della Toscana.

Chi sostiene qui e ora l'insediamento della Laika, dovrebbe essere consapevole che l'intero affare è stato mal condotto dal Comune di San Casciano e che si tratta di un pessimo esempio di gestione del territorio, da non ripetere. E invece no, si è scelto la strada di ridicolizzare gli oppositori, dipinti come difensori del paesaggio cartolina, utilizzando i più vieti e diseducativi slogan polemici. Un atteggiamento tanto più grave da parte dei politici il cui compito fondamentale è di comporre in una sintesi, si spera migliore, i diversi interessi e non di schierarsi acriticamente per una parte.

A meno che la Laika non sia utilizzata come una clava per colpire un avversario politico o presunto tale; tacciandolo addirittura del reato di non essere nato in Toscana (d'altronde come la multinazionale tedesca). Forse neanche il peggiore leghismo arriverebbe a tanto; ma si sa, il problema di buona parte della politica italiana, in questo caso locale, è innanzitutto un drammatico gap culturale.

Paolo Baldeschi ordinario di Pianificazione del Paesaggio

domenica 25 settembre 2011

Una crescita senza benessere

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http://eddyburg.it/article/articleview/17696/0/283/

Una crescita senza benessere
Data di pubblicazione: 25.09.2011
Autore: Viale, Guido


Ampia e lucida ricapitolazione sulle ragioni per cui il totem totalitario della “crescita” non è in grado di risolvere nessuno dei problemi né della congiuntura né dell’epoca. Il manifesto, 25 settembre 2011

La crescita (che non c'è e, dove c'era, svanisce) è trattata sempre più come un obbligo. Ma quella di cui si parla è solo una crescita contabile (del Pil), finalizzata a riequilibrare i rapporti tra deficit - e debito - e Pil con un aumento del denominatore (Pil) e non solo con una riduzione dei numeratori (deficit e debito). Il tutto soprattutto per «rassicurare i mercati». Dalla crescita ci si attende anche un aumento dei redditi tassabili (non tutti i redditi lo sono, o lo sono nella stessa misura: alcuni, per legge; altri, per violazione della legge) e, quindi, delle entrate dello Stato, rendendo più facile il pareggio di bilancio (assurto al rango di obbligo costituzionale) e, forse, anche una riduzione del debito (anch'essa resa obbligatoria dal cosiddetto patto euro-plus). Tuttavia meno spesa e più entrate non bastano a garantire il pareggio; non è detto che l'avanzo primario programmato (il surplus delle entrate sulle spese) sia compatibile con l'andamento dei tassi. Così gli interessi si accumulano in nuovo debito, una spirale, in contesti di deflazione come questo, senza fine.

La Grecia è da tempo in stato fallimentare (default): la sua economia non potrà più crescere per decenni; meno che mai in misura sufficiente ad azzerare il deficit o ripagare anche solo in parte il debito. Perché, allora, economisti e statisti non ne prendono atto? In parte perché non sanno che fare (era una sopravvenienza prevedibile, ma mai presa in considerazione); in parte per rapinarla; pensioni, salari, posti di lavoro, servizi pubblici, isole, riserve auree: tutto quello di cui ci si può appropriare (privatizzandolo) va preso prima di ammettere l'irreversibilità della situazione. La posizione dell'Italia non è molto diversa anche se il suo tessuto industriale è più robusto: una crescita sufficiente a pareggiare i conti non arriverà più; soprattutto strangolando così la sua economia. Ma qui i beni da saccheggiare - in barba ai risultati dei referendum - sono più succosi, mentre una presa d'atto del fallimento farebbe saltare, insieme all'euro, anche l'Unione europea. Per questo il gioco è destinato a durare più a lungo. Se però un governo ne prendesse atto, annunciando un default concordato - e selettivo: per colpire meno i piccoli risparmiatori - l'Europa correrebbe ai ripari e gli eurobond salterebbero fuori dall'oggi al domani. Ma così, dicono gli economisti, si blocca il circuito bancario e si arresta tutto il processo economico.

Certo le cose non sarebbero facili; ma non lo sono, per i più, neanche ora. Però il circuito bancario si era già bloccato dopo il fallimento Lehman Brothers, e sono intervenuti gli Stati nazionalizzando di fatto, per un po', le banche. Succederebbe di nuovo; e anche senza uscire dall'Euro, perché a intervenire dovrebbe essere la Bce.

Quella spirale del debito non è una novità: nella seconda metà del secolo scorso quasi tutti i paesi del Sud del mondo si sono indebitati per promuovere una crescita (allora si chiamava "sviluppo") che non è mai venuta. Poi, non potendo ripagare il servizio del debito, sono stati tutti presi sotto tutela dal Fmi, che ha loro imposto privatizzazioni e riduzioni di spesa analoghe a quelle imposte oggi dalla Bce e dal Fmi ai paesi cosiddetti Piigs: con la conseguenza di avvitare sempre più la spirale del debito. La letterina (segreta) che la Bce ha spedito al governo italiano per dirgli che cosa deve fare quei paesi la conoscono bene: ne hanno ricevute a bizzeffe, e sono andati sempre peggio. Viceversa, le economie cosiddette emergenti sono quelle che avevano scelto di non indebitarsi, o che ne sono uscite con un default: cioè decidendo di non pagare - in parte - il loro debito.

La crescita di cui parlano gli economisti - e di cui blaterano tanti politici - è la ripresa, accelerata, del meccanismo che ha governato il mondo occidentale nella seconda metà del secolo scorso e che oggi torna a operare, tra l'invidia generale, nei paesi cosiddetti emergenti (i quali hanno ritmi di sviluppo accelerati solo perché sono partiti da zero, o quasi); mentre da noi quel meccanismo è ormai irripetibile anche in paesi considerati locomotive del mondo. Vorrebbero tornare a moltiplicare la produzione di automobili, di elettrodomestici, di gadget elettronici, in mercati ormai saturi e gravati da eccesso di capacità (vedi il fiasco di Marchionne); di moda e di articoli di lusso in un mondo in cui i ricchi non sanno più che cosa comprare perché hanno già tutto e di più (mentre le produzioni a basso costo sono state delocalizzate in paesi emergenti; per cui ogni eventuale, quanto improbabile, aumento dei redditi da lavoro non avrebbe comunque conseguenze sull'occupazione in Occidente); di turismo in ambienti naturali sempre più degradati e - soprattutto: questa dovrebbe essere la "molla" della ripresa - di Grandi opere. Si tratta di un modello di impresa fondato su finanziamenti pubblici (spesso contrabbandati come finanza di progetto); su catene senza fine di subappalti (con conseguente corruzione, evasione fiscale, caporalato e mafia: non sono guai solo italiani); guasti irreversibili ai territori; inganni e violenze sulle popolazioni locali per imporre l'opera per poi, alla fine dei lavori, destinare all'abbandono territori e tessuti sociali degradati. Il Tav in Val di Susa ne è il paradigma. Per la protezione dell'ambiente, invece, niente. Dicono che per favorire il ritorno alla crescita va - temporaneamente - sospesa. Così si succedono i summit mondiali che non decidono niente, mentre il pianeta corre verso il collasso. Per l'equità - tra paesi ricchi e paesi poveri; tra ricchi e poveri di uno stesso paese; tra l'oggi e le generazioni future - meno ancora.

La crescita per fare fronte al debito non riguarda quindi né l'occupazione (c'è da tempo un disaccoppiamento tra occupazione e aumento del Pil, dei fatturati e dei profitti); né la qualità del lavoro (è sempre più precario in tutto il mondo e si investe sempre meno in formazione); né i redditi da lavoro diretti o differiti (le pensioni); né il benessere delle comunità, messo sotto scacco dal degrado ambientale, dal taglio dei servizi e del welfare, dall'aumento delle persone disoccupate, scoraggiate o emarginate (sospinte sempre più numerose sotto la soglia della povertà); né dalla distruzione della socialità e della socievolezza. Infine, la crescita affidata ai meccanismi di mercato aborre dalle politiche industriali; e se le propone o le invoca, è solo per dare una spinta - con incentivi, sgravi fiscali, tassi di interesse sotto zero o investimenti pubblici in Grandi opere - a un meccanismo che poi dovrebbe andare avanti da sé: non ci sono obiettivi generali da perseguire, perché deve essere il mercato a selezionare quelli che corrispondono alle propensioni del consumatore (esaltato come sovrano quanto più viene soggiogato dai meccanismi della pubblicità e della moda); non ci sono problemi di governance - intesa come composizione degli interessi e partecipazione dei lavoratori e delle comunità alla gestione delle attività che si svolgono su un territorio - perché è l'impresa che deve avere il controllo assoluto su di esse (come sostiene Marchionne tra gli applausi generali). Le privatizzazioni sono la traduzione di questa logica: il trasferimento della sovranità da quel che resta degli istituti della democrazia rappresentativa al dispotismo di imprese sempre più grandi, potenti, centralizzate, lontane dai territori e dalle comunità. Anche questa è una spirale senza fine: più si smantella quanto di pubblico, condiviso, egualitario è stato conquistato negli anni, più si imputa la mancanza di risultati al fatto che non si è ancora smantellato abbastanza. Il liberismo è un dogma senza possibilità di verifiche praticato da una setta incapace di tornare sui suoi passi.

Per far fronte alla crisi - che è innanzitutto crisi delle condizioni di vità della maggioranza della popolazione - valorizzando le risorse che territori, comunità e singoli sono in grado di mettere in campo - ci vuole invece una vera politica economica e industriale; che oggi non può che essere un programma di riconversione ecologica di consumi e produzioni, tra loro strettamente interconnessi. Non c'è spazio - né ambientale, né economico, né sociale - per rilanciare i consumi individuali: generazione ed efficienza energetiche, mobilità sostenibile, agricoltura e alimentazione a km0, cura del territorio, circolazione dei saperi e dell'informazione (e non della patonza) non possono che essere imprese condivise, portate avanti congiuntamente dai lavoratori, dalle loro organizzazioni, dalle iniziative comunitarie, dalle amministrazioni locali, dalle imprese legate o che intendono legarsi a un territorio di riferimento (rime tra le quali, i servizi pubblici locali: non a caso sotto attavvo). Le produzioni che hanno un avvenire, e per questo anche un mercato vero, sono quelle che corrispondono a questi orientamenti; ad esse dovrebbero essere riservate tutte le risorse finanziarie impiantistiche, tecniche e soprattutto umane che è possibile mobilitare. Questo è anche un preciso indirizzo di governance per prendere in carico la conversione ecologica. Sostituire un'economia fondata sul consumo individuale e compulsivo con un sistema orientato al consumo condiviso (che non vuol dire collettivo o omologato: la condivisione esige attenzione per le differenze e per la loro realizzazione) non può essere programmata in modo verticistico; né gestita con i meccanismi autoritari delle Grandi opere. La conversione ecologica è un processo decentrato, diffuso, differenziato sulla base delle esigenze e delle risorse di ogni territorio, integrato e coordinato da reti di rapporti consensuali, basato sulla valorizzazione di tutti i saperi disponibili. Una politica economica e industriale che si ponga questi obiettivi può anche affrontare, in modo selettivo e programmato, l'azzardo di un default: per non destinare più le risorse disponibili al pozzo senza fondo del debito pubblico. Ma certo questo richiede l'esautoramento di gran parte delle attuali classi dirigenti (e di molti economisti). L'alternativa non è dunque tra crescita e decrescita, ma tra cose da fare e cose da non fare più.

venerdì 9 settembre 2011

E' la crescita che distrugge il lavoro e i beni comuni

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di Paolo Cacciari
Fa una certa impressione leggere i patti multilaterali, gli appelli bipartisan alla coesione nazionale in nome della Crescita invocata come se fosse la Madonna miracolosa. Ma di cosa parlano sindacalisti, industriali, banchieri, politici? Scrivono i ricercatori del Wuppertal Insitute (Futuro sostenibile. Le risposte eco-sociali alle crisi in Europa, a cura di Wolgang Sachs e Marco Morosini, Ed. Ambiente, 2011): “Da tre decenni i politici cercano inutilmente di combattere la disoccupazione attraverso una crescita economica forzata. Ma se la produttività del lavoro aumenterà, come ha fatto finora, del 1,5-2% all’anno, il Pil dovrebbe aumentare del 3 o 4% all’anno o anche di più nel lungo periodo per eliminare davvero la disoccupazione. Puntare a tassi di crescita del genere è vano” (p. 289). E stiamo parlando della Germania, della “locomotiva” – irraggiungibile – dell’Europa, del “modello” – inimitabile – di economia. Dal 1970 al 2005 la produttività del lavoro è aumentata del 2,5%, il Pil è più che raddoppiato, ma le ore lavorate sono diminuite dell’86%. Insomma, nei paesi a capitalismo maturo, i posti di lavoro diventano più produttivi e diminuiscono di numero: jobless growth. Le ragioni di questa divaricazione, di questo divorzio tra crescita e benessere, sono molte: la delocalizzazione delle produzioni industriali di massa, l’allargamento dei sistemi di mercato in nuove aree geografiche e settori produttivi, la finanziarizzazione dell’economia con i tassi di rendimento esorbitanti pretesi dai possessori di titoli di credito, altro ancora. Ma è certo che inseguire questa crescita è un vero suicidio per le società occidentali. Senza contare il fatto che questa crescita economica si porta dietro un carico ambientale semplicemente insostenibile. Serve ricordare le guerre commerciali (e non solo) in corso per l’accaparramento delle materie prime, delle utilities, del suolo fertile, dei genomi, di internet… e di quanti altri beni comuni ancora rimangono da saccheggiare? Per quanta droga finanziaria (speculativa nelle Borse o di stato nel sostegno ai titoli del debito pubblico) si possa immettere, la cosiddetta “economia reale” europea, quella fatta di merci vendibili e di lavoro vivo remunerato, non riuscirà mai a tenere il passo nella guerra competitiva senza confini e senza regole che si chiama concorrenza intercapitalistica internazionale, dove 500 società di capitale controllano il 52% del Prodotto lordo mondiale, dove una microscopica casta di cosmocrati stile Marchionne ha il potere di determinare le politiche industriali degli stati nazionali. Difficile pensare che la crisi di un sistema si possa risolvere perseverandolo a tutti i costi. Un altro che se ne intende, Tim Jachson, a capo di uno staff di consulenti del governo britannico, (Prosperità senza crescita. Economie per il pianeta reale, Ed. Ambinete, 2011) ha scritto: “Sono state le politiche attuate per stimolare la crescita a portare l’economia al tracollo”. Sarebbe forse giunto il momento di mettere in dubbio l’imperativo della crescita. Le alternative esistono, ma sono quelle che non scritte nel “patto sociale”: redistribuire il lavoro attraverso una diminuzione degli orari (in Germania lo chiamano “tempo pieno breve per tutti” o “società a mezza giornata”) e l’introduzione di nuovi modelli di reddito (fissazione di limiti massimi e minimi con un reddito di base garantito per la valorizzazione del lavoro oggi non retribuito per attività di cura per la famiglia, la natura, la società); nuova fiscalità puntando su tasse ecologiche (carbon tax, pubblicità) e socialmente eque (Tobin tax); diversa gestione trasparente e pubblica della finanza (imponendo tassi di rendimento differenziati a seconda del periodo di recupero); economia solare, investimenti ecologici (conversione ecologica dell’industria secondo i modelli della Bleu Economy, a zero emissioni), revisione della contabilità nazionale (superare il Pil come indicatore del benessere sociale ed della sostenibilità ambientale). Insomma è necessario “disaccoppiare” (decoupling, come dicono gli economisti) il benessere, lo star bene, da quanto il mercato è disposto a darci, cioè dalla nostra capacità di solvibilità. Per uscire davvero dalla crisi dovremmo far recedere il mercato (cominciando da quello finanziario, dei titoli di debito) aumentando gli spazi anche economici di autonomia della società. Sottrarre beni e servizi comuni (l’acqua è solo il primo esempio, quanti altri sarebbero possibili?) dagli artigli della “messa a valore” (rendimento monetario, profittabilità) di ogni cosa e di ogni relazione sociale. Insomma servirebbe un progetto di nuovo modello economico per la sinistra. Esattamente il contrario della crescita.
Per un'altra Città lista di cittadinanza

martedì 15 febbraio 2011

IL NOSTRO COMUNICATO STAMPA SULLA DISCUSSIONE IN CONSIGLIO COMUNALE DELL'ORDINE DEL GIORNO SULLA CRISI ECONOMICA

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CONSIGLIO COMUNALE DI SAN CASCIANO VAL DI PESA 7  FEBBRAIO 2011


SI PARLA DI CRISI ECONOMICA, DIRITTI DEL LAVORO E DELLA PERSONA, RICONVERSIONE ECOLOGICA DELL'ECONOMIA.
Laboratorio per un'Altra San Casciano-Rifondazione Comunista ha presentato all'ultimo consiglio comunale un ordine del giorno per discutere sui temi della crisi economica e della vicenda Fiat.
Fronteggiare questa crisi con i modelli e le ricette del passato sarebbe sbagliato e miope. Bisogna avere il coraggio di intraprendere nuove strade, lavorando per un nuovo modello economico fondato sulla sostenibilità ambientale, la qualità sociale, i diritti, un nuovo modo di produrre, affermando nuovi stili di vita più sobri e più responsabili.
Il governo nazionale non propone soluzioni politiche in grado di fronteggiare la crisi, ma attua politiche fallimentari che scaricano i costi della crisi sulle fasce più deboli della società, punta alla competizione tramite l'abbassamento del costo del lavoro e delle tutele per i lavoratori, determinando così lavoro precario, disoccupazione, diseguaglianze, e, conseguentemente, un'Italia sempre più povera.
In questo contesto il conflitto Fiat-Fiom scoppiato a fine 2010 sul progetto per lo stabilimento di Mirafiori a Torino – che segue l'analoga vicenda presso lo stabilimento di Pomigliano – rappresenta un passaggio cruciale per il futuro economico e sociale del nostro Paese.
Il referendum a Mirafiori non ha rappresentato solo una vertenza metalmeccanica; parla a tutti noi, parla di difesa di dignità, di rispetto del lavoro, di diritti, di democrazia, valori da salvaguardare e sostenere non soltanto per chi un lavoro ce l'ha, ma soprattutto per dare prospettive e tutela a chi rischia di perdere il lavoro, al precariato, ai disoccupati, agli studenti.
La multinazionale Fiat, con le ultime dichiarazioni di Marchionne, conferma gli investimenti in Italia solo se gli stabilimenti saranno “governabili” e, in prospettiva, pare prepararsi alla fusione con Chrysler e a migrare negli Usa: continua la politica ricattatoria, una vergogna che dimostra come sia stata fallimentare la strada di tutte le forze politiche dal PD alla Lega di appoggiare Marchionne contro gli operai.
E' veramente il momento di lavorare ad una seria proposta economica alternativa al falso modernismo che l'intero establishment politico-economico italiano cerca di imporre
Non si può uscire dalla crisi economica e dalla crisi di settore se non rimettendo in discussione il modello economico che ha come unico metro di misura del benessere umano il PIL e i dati relativi al consumo. L'unica opportunità possibile per i settori in crisi strutturale è la conversione ambientale del sistema produttivo e dei nostri consumi. I settori in cui progettare, creare opportunità e investire non mancano: dalle fonti di energia rinnovabili all'efficienza energetica, dalla mobilità sostenibile all'agricoltura biologica a chilometri zero, dal riassetto del territorio all'edilizia ecologica.
Questi i temi affrontati nell'ordine del giorno discusso in consiglio comunale. Avremmo auspicato che il documento potesse essere condiviso “a sinistra”; invece, mentre Sinistra per San Casciano ha appoggiato il testo, contribuendo con alcune integrazioni, il PD ha votato contro e ha presentato un ulteriore ordine del giorno, in cui sono mancate completamente le proposte e i contenuti. Riflettendo non avrebbero potuto fare diversamente, considerando come autorevoli esponenti del PD abbiano supinamente accettato il ricatto di Marchionne, atteggiamento conseguente alla totale assenza nel PD di proposte di politica economica alternativa al “pensiero unico” neoliberista, così come mancano concrete indicazioni degli strumenti che si ritengono necessari per superare la crisi economica ambientale e morale del nostro Paese.
Eppure la crisi impone il cambiamento, e un'economia sostenibile e solidale è possibile. Noi stiamo dalla parte di chi con coraggio rimette in discussione il liberismo e questo finto mercato, le privatizzazioni dei beni comuni e la svendita del territorio e il progressivo impoverimento culturale che ci vede sempre più “consumatori” e sempre meno “portatori di diritti”.

giovedì 27 gennaio 2011

Al prossimo Consiglio Comunale mozione su "Crisi economica e referendum Fiat"

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Gruppo Consiliare – Laboratorio per un'Altra San Casciano-Rifondazione Comunista

ORDINE DEL GIORNO
“Crisi economica e referendum Fiat”

PREMESSO:

che la grave crisi che stiamo attraversando è strutturale e al contempo globale, ed è una crisi economica dipendente da una crisi ambientale ed energetica;

che il sistema economico-produttivo vacilla e manifesta ogni giorno di più la sua inadeguatezza e insostenibilità. Questo è il  momento per ripensare complessivamente il nostro modello di società e la nostra idea di benessere;

che il governo nazionale non propone soluzioni politiche in grado di fronteggiare la crisi,  ma attua politiche fallimentari che scaricano i costi della crisi sulle fasce più deboli della società, punta alla competizione tramite l'abbassamento del costo del lavoro e delle tutele per i lavoratori, determinando così lavoro precario, disoccupazione, diseguaglianze, e, conseguentemente, un'Italia sempre più povera;

      che il conflitto Fiat-Fiom scoppiato a fine 2010 sul progetto per lo stabilimento di Mirafiori a Torino – che segue l'analoga vicenda presso  lo stabilimento di Pomigliano – rappresenta un passaggio cruciale per il futuro economico e sociale del nostro Paese;

CONSIDERATO
che l’argine rotto dall’accordo imposto da Marchionne allo stabilimento di Mirafiori, verrà riproposto a cascata (già succede: vedi le dichiarazioni di FinMeccanica) negli altri stabilimenti FIAT e nel paese mutando il concetto di contrattazione collettiva;

che appare evidente il tentativo, in questa come in altre occasioni, di usare la crisi economica per cancellare i diritti e le tutele conquistate dalle lavoratrici e dai lavoratori attraverso anni di lotte;

che l’atteggiamento della Fiat contrasta  con l’articolo 39 della Costituzione Repubblicana e con i titoli II e III della legge 20 maggio 1970 n. 300 (Statuto dei diritti dei lavoratori);

che le garanzie proposte da FIAT sono pressoché nulle, come inconsistente è il piano di recupero, che non sembra tener conto della crisi generalizzata a livello mondiale del settore auto – legata anche e soprattutto al fenomeno della superproduzione relativa al mercato attuale – il che rende improbabile un’uscita dalla crisi di settore attraverso un semplice aumento della produttività;


che l’atteggiamento di FIAT, che in Italia detiene di fatto il monopolio del settore, risulta  ingiustificato per le ingenti agevolazioni statali di cui ha beneficiato nel corso degli anni – tramite incentivi e finanziamenti pubblici –, nel momento in cui Fiat si configura come una multinazionale volta al solo profitto e progetta la delocalizzazione del lavoro salariato nei paesi dove il costo del lavoro è inferiore e minori i controlli;

che oggettivamente la politica aziendale di FIAT appare pesantemente sbilanciata verso il  la speculazione finanziaria e punta, più che ad un rilancio o ad un rinnovamento dell’impresa, ad una semplice “ristrutturazione” degli organici e dei contratti, preferendo investire invece nelle acquisizioni di quote societarie (partecipazione in Crysler, ormai al 25%) finalizzate a mere speculazioni borsistiche;

CONSIDERATO INOLTRE

che  il referendum sull'accordo di Mirafiori – nonostante il clima intimidatorio e il ricatto della delocalizzazione dell'attività finalizzati ad ottenere un plebiscito di consensi – ha  visto prevalere solo di misura il sì e dimostra che la Fiat non ha il consenso dei lavoratori, soprattutto nei settori della catena produttiva, realmente colpiti dall’accordo


EVIDENZIATO

che non si può uscire dalla crisi economica e dalla crisi di settore se non rimettendo in discussione il modello economico che ha come unico metro di misura del benessere umano  il PIL e i dati relativi al consumo

che è necessario intraprendere nuove strade, lavorando per una riconversione ecologica dell'economia,  che sia fondata su sostenibilità ambientale ed equa ripartizione delle risorse, capace di garantire la qualità sociale, i diritti del lavoro e della persona,  e proponga nuovi modelli di produzione e di acquisto,  affermando nuovi stili di vita più sobri e più responsabili;

IL CONSIGLIO COMUNALE DI SAN CASCIANO VAL DI PESA SI IMPEGNA

a sottoscrivere e sostenere, senza riserve, la causa dei tanti lavoratori FIOM che si sono opposti al ricatto padronale dell’ad. FIAT, facendosi garante, negli organi istituzionali competenti, dei diritti fondamentali del cittadino, della libertà e del lavoro, da sempre parti fondanti della nostra Carta Costituzionale
a promuovere e investire in una riconversione ecologica, sostenibile e solidale dell'economia, quale strategia per uscire dalla crisi e garantire a tutti un'esistenza dignitosa nel rispetto dei limiti del pianeta.
 

San Casciano Val di Pesa • Gruppo consiliare Laboratorio per un’Altra San Casciano - Rifondazione Comunisti Italiani